Il mio ictus: cosa ho visto in Italia
Dopo l’ictus, vivendo in Italia, mi sembra ci sia qualcosa che non funziona. Non ho ancora capito bene cosa, ma noto una certa mancanza di empatia da parte di molti sanitari.
Tra le persone comuni, invece, vedo tanta ignoranza: la stessa che avevo io prima di esserne colpito.
Quando ne parlo con qualcuno, la prima cosa che mi dicono è: “Sei stato fortunato”.
Chiedo perché, e la risposta è: “Perché i nostri conoscenti che hanno avuto la stessa cosa sono rimasti su un divano a pisciarsi addosso”.
Io rispondo che credo sia merito di chi mi ha portato in ospedale due ore dopo l’ictus: mi hanno curato subito e il cervello non si è rovinato del tutto. Dico anche che spesso a casa si aspetta troppo: se non si interviene entro 6-8 ore, i danni diventano pesanti. Dipende anche da dove colpisce, parte destra o sinistra del cervello.
Magari la persona è anziana, un po’ confusa, e non ci si accorge dei sintomi. E invece di portarla in ospedale, la si tratta male, pensando che stia solo peggiorando di carattere. Capita.
Parlare con i sanitari
Con i medici ho imparato a chiedere di rispondermi scritto. Perché magari per i prossimi 30 secondi ricordo e rispondo bene, ma basta un attimo di distrazione e dimentico i particolari.
Ho parlato con molti specialisti, sia in Bielorussia che in Italia.
La differenza?
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In Bielorussia cercavano di capire.
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In Italia spesso hanno la sicurezza di chi pensa di sapere già tutto, e chi gli parla diventa un idiota perché “ha avuto un ictus”.
Ma non è così. Sì, dimentichiamo particolari, è vero al 90% delle volte. Ma sappiamo bene cosa ci è successo. Le cose importanti, se lo sono davvero per noi, restano fissate.
Il problema è un altro: non siamo più veloci nei discorsi. Dobbiamo pensarci prima. Le nostre risposte arrivano più lente, perché non siamo reattivi come una volta.
La documentazione bielorussa
In Italia sto rifacendo tutte le visite, perché con la documentazione bielorussa nessuno ci capisce niente. I parametri sono diversi e, se il medico non si applica, non riesce a interpretarli.
Più di una volta, davanti a specialisti italiani, ho portato i miei documenti tradotti in buon italiano. Ma con supponenza ricevevo risposte tipo: “Non capisco nulla da questi documenti, non so cosa fare”.
Io cominciavo a innervosirmi e più di una volta ho raccolto i documenti e detto che me ne sarei andato, perché stavamo perdendo tempo in due ed era inutile che fossi lì.
Per qualche motivo, in quei casi il medico si calmava, riprendeva in mano i fogli e… li capiva. Non perché fosse cambiata la lingua, ma perché prima non li aveva letti davvero. Forse era l’impaginazione a creare confusione: nei referti italiani trovano subito quello che cercano, nei miei no. Ma alla fine, quando si mettono a leggerli, anche quei documenti raccontano la stessa storia.
⚠️ Attenzione
Questa è la mia esperienza personale. Non è un giudizio medico. Ognuno vive il rapporto con i sanitari in modo diverso. Ma chi ha avuto un ictus ha bisogno soprattutto di tempo, pazienza ed empatia.
La mia esperienza dopo l’ictus in Italia: mancanza di empatia nei sanitari, ignoranza tra la gente comune e difficoltà con la documentazione estera.